Le norme sulla classificazione di ATEX fanno riferimento al volume trascurabile, spartiacque tra ciò che è ATEX e ciò che non lo è. A dispetto della sua importanza, i criteri adottati per il relativo dimensionamento sono piuttosto grossolani e dogmatici e non considerano tutto ciò che incide effettivamente sulla pericolosità delle emissioni.
Nella valutazione del rischio esplosione possiamo distinguere due ambiti di competenza complementari: quella dei produttori e quella del datore di lavoro che fanno capo a due diverse direttive: la 34/2014 per i produttori; la 99/92 per i datori di lavoro. Le aziende di prodotti ATEX, per lo più industrie multinazionali, possono contare su specialisti, normative consolidate e sperimentazioni che le guidano in scelte consapevoli. Il datore di lavoro entra nel merito di queste competenze solo per scegliere le caratteristiche dei prodotti che installa; fatta la scelta, deve solo gestire le aree classificate. A tale scopo, di solito il datore di lavoro viene aiutato da un consulente; insieme valutano le lavorazioni e decidono misure di adeguamento, ciascuno portando una propria visione. Nel confronto non è raro che si manifestino contrapposizioni; ma in realtà entrambi hanno in comune l'obiettivo di attuare una sicurezza efficace e sostenibile.
E in questa partita un ruolo fondamentale è svolto dal volume trascurabile, che discrimina tra ciò che è ATEX e ciò che non lo è.
Dal 1990 ad oggi, anni in cui ho operato nel settore dell'ATEX, c'è stata un'evoluzione. All'inizio (epoca che oramai pare lontanissima) si studiavano le esplosioni con metodi direi esclusivamente probabilistici. Tali metodi legano incidenti e cause con raffinate analisi statistiche, basate su serie storiche relative a centinaia di incidenti e performance della sicurezza. Si tratta di un approccio che non è realmente capace di prevedere le criticità di processi produttivi innovativi, ma solo di analizzare processi conosciuti. Ma se si approfondisce il tema, si individua come cuore del problema il seguente punto: come nasce un'esplosione e quali sono gli effetti fisici che produce.
Una tappa importante in tal senso è stata per me l'elaborazione del metodo RPM, evoluzione che supera alcuni limiti dell'attuale quadro normativo.
La classificazione delle zone, infatti, primo passo verso la valutazione del rischio esplosione, richiede una conoscenza approfondita del processo produttivo e delle sostanze utilizzate. Per la modellazione si utilizzano formule che correlano i parametri di processo ed i fattori ambientali con l'estensione delle zone. Le emissioni di volume inferiore ad una certa quantità (il volume trascurabile, appunto) vengono considerate non pericolose.
Ma come viene individuato questo enigmatico volume trascurabile?
L'allegato XLIX al DLvo 81/08 definisce "area in cui possono formarsi miscele esplosive" le zone in cui i volumi di miscela attesi sono "tali da richiedere particolari provvedimenti di protezione per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori interessati". Il Decreto non indica come condurre questa valutazione e dunque normalmente ci si riferisce a zone cosiddette zone NE della serie CEI 60079.
Il Codice di Prevenzione Incendi (DM 3/8/2015, modificato dal DM 12/4/2019) compie notevoli passi in avanti e, prendendo atto del fatto che il rischio zero non esiste, stabilisce che per rendere accettabile il rischio occorre ridurre al minimo ciascun fattore, affinchè la probabilità composta risulti accettabile. Il Codice indica anche il tipo di analisi strutturale da adottare per determinare gli effetti delle esplosioni, facendo naturalmente riferimento alle Norme Tecniche per le Costruzioni (in sigla NTC2018). Se un appunto si può fare al Codice di Prevenzione Incendi, è forse quello di non enfatizzare abbastanza le problematiche connesse con gli effetti delle radiazioni termiche sul personale, aspetto invece fondamentale poiché le lesioni più gravi prodotte sull'uomo sono proprio legate alle ustioni.
Le NTC2018, dal canto loro, presentano vari punti deboli:
- il par. 3.6.2 si riferisce solo ad esplosioni interne e volumi fino a 1.000 m3, limite che esclude l'applicabilità su molti capannoni o edifici produttivi;
- per definire l'entità delle azioni occorre stabilire a priori la gravità delle conseguenze, decidendo senza alcun tipo di verifica se gli effetti siano trascurabili, localizzati o generalizzati. Non sempre ciò è possibile poiché vi sono situazioni border line che richiedono, appunto, una preventiva analisi delle azioni prodotte dall'esplosione;
- le formule proposte (con forti limitazioni sul campo di validità) non considerano la quantità di miscela ATEX che esplode;
- le NTC2018 non citano affatto la correlazione tra resistenza dei materiali e velocità di deformazione.
Il D 9/5/2001 del Ministero dei Lavori Pubblici individua limiti di esposizione per sovrapressione e radiazione termica variabile; ma nono specifica su come calcolarle, rinviando implicitamente a modellazioni usualmente condotte per analisi di sicurezza di aziende RIR. Metodi giustificati per quel contesto, ma eccessivamente impegnativi per le ben più numerose e meno strutturate aziende non RIR.
In breve, se il DLvo 81/08 stabilisce gli obiettivi di salvaguardia della salute del personale; la RTV2 estende gli obiettivi di sicurezza ai più generali obiettivi di progettazione antincendio ed indica un metodo per valutare gli effetti del rischio esplosione; il D. 9/5/2001 individua valori soglia idonei a garantire gli obiettivi di sicurezza e di prevenzione incendi; le NTC2018 presentano criticità che le rendono, di fatto, inapplicabili, occorre infine individuare strumenti che permettano di stimare le azioni (effetti fisici) dovute ad una esplosione.
Uno di questi strumenti è il metodo TNO, non esente da limiti: il TNO quantifica solo le sovrapressioni e non anche agli effetti temici; inoltre prevede di scegliere tra 10 curve di sovrapressione in base ad indicazioni descrittive, in qualche modo quindi soggettive.
Ma oggi esiste anche il metodo RPM che è di più diretta applicabilità, considera anche le azioni termiche e rappresenta un'evoluzione significativa.
Impiegando questo metodo, che mette in relazione la quantità di miscele ATEX con gli effetti delle esplosioni prodotte, è possibile osservare come spesso si abbia a che fare con volumi di emissione piccoli, difficilmente governabili nel mondo reale che costituiscono più che altro un'astrazione teorica. Peraltro, a fronte di un vincolo così poco gestibile, occorre prevedere nella zona classificata misure ad alto livello di sicurezza (come impianti ed attrezzature con marcatura ATEX adeguata, abbigliamento del personale idoneo, procedure di sicurezza, SIL elevati, affidabilità e così via), difficili da gestire.
Attraverso il metodo RPM, inoltre, si fornisce una spiegazione dettagliata del fenomeno fisico che permette di formare il personale descrivendo concretamente il pericolo. Ho vissuto come un reale successo professionale quei corsi di formazione in cui sono riuscito a trasmettere ai partecipanti quale fosse il pericolo del LORO processo produttivo e quali effetti poteva avere, tanto che lo stesso personale mi ha segnalato situazioni effettivamente pericolose di una parte del processo produttivo che inizialmente non mi era stato chiesto di esaminare. Sebbene in quel caso non abbia fatto un test di apprendimento, sono sicuro che ricorderanno a lungo quanto appreso e che applicheranno misure di sicurezza reali. A patto di fornire le giuste informazioni, quindi, la consapevolezza del personale è forse il più potente dispositivo di sicurezza.
Sono quindi felice di vedere che ultimamente ci si stia orientando sempre più verso un approccio zero.0 che (comunque lo si voglia chiamare) cerchi una maggiore consapevolezza sul legame causa / effetto, cioè che associ l'entità delle emissioni che possono manifestarsi in uno specifico contesto con i danni prevedibili. Anche perché ritengo di aver dato un contributo a questa evoluzione.
Concludo con una proposta, pensata per integrare i metodi di classificazione delle zone.
Io credo che, prima ancora di avviare una valutazione di rischio, consulenti e datori di lavoro debbano consapevolmente scegliere l'entità dei danni accettabili nei vari specifici contesti aziendali. In conseguenza di tali scelte e considerando le caratteristiche dei processi produttivi, sarà quindi possibile stabilire volumi di emissione significativi ed effettivamente gestibili (in simboli: Vex,d). Facilmente Vex troppo cautelativi determinano misure non credibili ed onerose; d'altra parte Vex anche molto piccoli possono invece determinare insospettabili criticità, da tenere sotto controllo. Conclusa questa fase, si potrà poi sparare a zero sul rischio con la potenza di fuoco delle attuali norme CEI, IEC, NFPA, BS, UNI ecc.